giovedì 12 luglio 2012

Le scuole e le tecniche




Imparare una tecnica può procurarci un lavoro, ma non ci rende creativi; mentre se c'è la gioia, se c'è il fuoco creativo, esso troverà il modo di esprimersi, senza bisogno di studiare un metodo espressivo. Chi vuole davvero scrivere una poesia la scrive e, se possiede la tecnica, tanto meglio; ma perché dare un'enfasi eccessiva a ciò che costituisce solo un mezzo di comunicazione se poi non si ha niente da dire? [...]
C’è speranza soltanto nell’integrazione dei diversi processi di cui siamo fatti. Integrazione che non viene in essere attraverso ideologie o l’adesione a qualunque autorità particolare, politica o religiosa che sia; essa viene in essere soltanto mediante un’estesa e profonda coscienza. Questa coscienza deve scendere entro strati più profondi dell’essere e non accontentarsi di risposte e reazioni superficiali.
Jiddu Krishnamurti - La mia strada è la tua strada, ed. Mondadori



La musicoterapia in Italia si è diffusa molto, sviluppata, cresciuta... istituzionalizzata.
Sono aumentate le scuole, sono aumentate le associazioni nazionali (AIM, CONFIAM, FIM, FEDIM, ...), sono aumentati gli operatori, i terapisti e i terapeuti. Il suono è una risorsa talmente ricca, che è normale, direi salutare, registrare questa crescita. E l'esigenza di istituzionalizzare, per certi versi, nasce anche dall'umana necessità di fare sistema, di condividere modelli ed esperienze.
Eppure, da tempo, si ascolta anche una nota stonata, un richiamo forte, incantatorio, da parte delle sirene del potere. Perché istituzionalizzare vuol dire anche diventare corporazione, nucleo di potere, nel tentativo di riempire il vuoto che è ancora presente nel rapporto con gli altri interlocutori già istituzionali. Una riflessione è d'obbligo.

La conseguenza principale di questa corsa al potere avviene a due livelli: nel rapporto con gli studenti di musicoterapia; nel rapporto con i pazienti e gli utenti.
Le associazioni nazionali e le scuole, nel confronto/scontro di potere, sviluppano meglio la contrapposizione piuttosto che il dialogo. Una contrapposizione ideologica che irrigidisce teniche e approcci alla materia che nulla hanno a che fare con la realà dell'esperienza terapeutica e con la complessità della cura, della vita.
La prima ricaduta, dicevo, avviene a livello dell'insegnamento. Piuttosto che insegnare agli studenti, futuri professionisti, un approccio aperto, flessibile, duttile, viene veicolato un modello rigido, ideologicamente e falsamente scientifico, freddo, che tende a ridurre le rielaborazioni e la complessità dell'esperienza reale. Gli studenti, in questo senso, si ritrovano a interiorizzare schemi pensati da altri, in altri percorsi di cura, che magari hanno avuto senso e una funzione allora, nel passato, ma che difficilmente possono essere riprodotti. A un secondo livello, le scuole e le associazioni tendono a proteggersi anche sul piano delle relazioni e degli incontri. Per esempio, i tirocini sono spesso autorizzati solo se svolti accanto a musicoterapeuti/pisti provenienti dalla stessa scuola o iscritti alla stessa associazione. Non importa l'esperienza, i risultati, le opportunità reali di conoscere e mettersi in gioco che un possibile tirocinio ha. In alcuni casi si arriva al paradosso per cui si preferisce lasciare il tirocinante da solo, piuttosto che affiancato a qualcuno che non si riconosce in quella precisa istituzione. Salvaguardia di un modello o salvaguardia di un potere?

La seconda ricaduta riguarda i pazieni, gli utenti. Un musicoterapeuta/pista ideologicamente formato, che cerchi di applicare le tecniche che ha appreso in modo fedele, senza aver sviluppato la capacità di riflettere con la propria testa e le proprie intuizioni, rischia di ribaltare il rapporto all'interno dei percorsi di cura: il paziente sarà costretto ad adattarsi alle tecniche proposte, piuttosto che il contrario. Il paziente vivrà quindi delle forzature, delle violenze inconsapevolmente indotte dalla rigidità dell'approccio, fino a raggiungere il punto di rottura, per cui il paziente risulterà inadatto alla tecnica, al modello di riferimento.
Questo meccanismo è insidioso, e trova facile presa sugli inesperti nuovi professionisti del settore per una funzione umana molto chiara che deve essere riconosciuta, ascoltata e rielaborata: la paura.
L'inesperienza (professionale, ma spesso anche l'immaturità relazionale e spirituale) portano il giovane professionista a nascondersi dietro le false sicurezze della tecnica. Tale paravento permetterà al professionista di non mettersi mai realmente in gioco, a nudo, nella realtà dell'esperienza e della relazione di cura, perché prima viene la tecnica, perché gli altri non possono capire quali sottili, intelligenti, superiori obiettivi si vanno perseguendo. Falsamente protetto, il giovane professionista, ideologicamente sicuro, non potrà che andare incontro a fallimenti, insoddisfazioni, sofferenza, enorme fatica. E il cerchio si chiude, nel momento in cui le paure e insicurezze del neo-professionista si scontrano con le reali esigenze dei pazienti e degli utenti, in una relazione terapeutica disfunzionale e inefficace.

Le scuole e le associazioni dovrebbero assumersi la responsabilità di riflettere su questi temi. E a seguito di tali riflessioni, dovrebbero agire per favorire negli studenti un approccio il più possibile aperto, multi-disciplinare, dove il metodo non sia né un insieme rigido e precostituito di tecniche, né un contenitore senza contenuti. I contenuti, insieme alle tecniche, sono l'esperienza, il nuovo, la disponibilità all'incontro, attraverso l'empatia, riconoscendo i propri limiti come persone, e le proprie risorse, guidati dall'energia e dal potenziale enorme che appartiene ai suoni, alla musica. Il contenuto sono la possibilità di sviluppare, insieme al paziente, un proprio personale, unico ma condivisibile metodo di lavoro, e valutare in modo sereno e concreto i risultati di tale lavoro.

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